E MENO MALE CHE CI AVEVANO DETTO DI
LAUREARCI…
(TIRATINA D’ORECCHIE AL SISTEMA UNIVERSITARIO ITALIANO)
Nella consapevolezza che ormai è sempre più difficile
distinguere tra cosa sia vero o errato e che viviamo in un tempo dove tra
spionaggio e controspionaggio ci sentiamo spesso marionette guidati da
burattinai intrisi di potere, voglio dedicare qualche riflessione ad un’istituzione
che da sempre rappresenta il punto nevralgico del sapere: le università.
Senza dissipare retorica voglio tornare indietro ai tempi in
cui, io stesso ancora alunno, l’equazione del futuro era ancora di una
semplicità disarmante. O andavi a lavorare o a studiare. A prescindere dal
fatto che anche lo studio, se fatto bene è un lavoro arduo, ricordo che a quei
tempi (e mi sento quasi vecchio a scriverlo) la visione sulle due categorie era
abbastanza chiara. I lavoratori erano quelli che se lavoravano duro, a diciott’anni
andavano già in vacanza su qualche isola dal nome che induceva a pensare a
notti in bianco e che appena fatta la patente, giravano già con la propria autovettura.
Gli studenti invece, ormai spogli dell’immagine che li identificava come
privilegiati (anni ’50) o ribelli (anni ’70), erano visti generalmente come i
presbiti, con il loro sguardo fermo rivolto ad un futuro sicuro. Anche o
soprattutto in senso economico.
Ricordo con piacere gli anni fruttuoso al liceo di Bolzano, ma mi viene in mente una confessione che mi fece un ingegnere tedesco prossimo alla pensione, prima che mi accingessi ad entrare nel confuso mondo dell’università.
“Guarda ragazzo, sono uscito dall’università
che conoscevo solo la teoria. Attraverso anni e anni di tirocinio sono arrivato
a un punto che riesco a fare il mio lavoro come si deve e ora, che modestamente
parlando, mi considero abbastanza esperto nel campo dell’ingegneria…mi «obbligano»
ad andare in pensione. Giusto ieri ho introdotto nell’azienda un giovane neo
laureato. Ottimi voti, ottima impressione, ma nella sua espressione disagiata
mi sono rivisto”. Ricordo la mia conclusione e cioè che non a caso gli
esperti sono quasi tutti sempre persone attempate. Sì, siamo la generazione
alla quale hanno sempre sussurrato “Studia, studia, studia” e non si può
confutare che si tratta di un inconfutabile imperativo.
Eppure in questi anni
in cui ho avuto l’occasione di osservare diverse università, sia da
frequentatore che basandomi sulle testimonianze di amici, sono arrivato a
pronunciare un j’accuse che dovrebbe
far riflettere chi dall’alto, schiavo dei sistemi politici, dirige un sistema
che era in fondo nato da un bellissimo istinto primordiale: la curiosità di sapere.
Proprio quella curiosità che porta il bambino ad avvicinare il proprio dito
verso la candelina sulla sua torta di compleanno per comprendere il significato
pratico del concetto “fuoco”. Proprio quella curiosità che spingeva gli studenti
greci ad incontrarsi nell’agorà o a
conversare con “gentaccia” come Socrate. Le università sono nate per compensare
la sete di sapere e trovo quasi ironico, che proprio in Italia, con Bologna
(1033) culla europea del sistema universitario, abbiamo certe università
totalmente alienate da ciò che dovrebbe essere il principio dell’istruzione. Le
facoltà italiane sono diventate l’apoteosi della riproduzione, le tesi di
laurea una variante sofisticata del copia-incolla, c’è spesso l’obbligo di
frequenza e inoltre, per compensare il complesso della dispersione
universitaria, sono spuntate tante micro-università che pur di avere studenti
(e quindi finanziamenti) promettono lauree anche a encefali monocellulari. Ora
esistono le università telematiche, wow!
E’ molto triste pensare che da qualche parte, qualche furbo ha deciso d’instaurare
un bel giorno le lauree triennali, purtroppo spesso inutili a livello pratico e
pubblico come il ghiaccio al polo nord. Un biscottino, un assaggio per poter
dire all’Europa: “Ehi, guardate quanti «laureati» abbiamo in Italia!” Poi,
appena questi vogliono partecipare a qualche concorso pubblico, scoprono di
aver acquistato un biglietto fasullo, un biglietto che permette di entrare allo
zoo, senza poter vedere la sezione dei felini. Non a caso le facoltà pesanti
(p.e. medicina) non le permettono. Chi di voi si farebbe operare da un medico,
che ha fatto tre anni di teoria? Intanto riempiono i telegiornali di
statistiche e osannano meriti e impegno degli studenti. Fanno le classifiche
delle università, mandano gli studenti in giro per il mondo, organizzano master
e usano parolone per illudere gli studenti con diplomi decisamente più
impregnati di “avere” che di “essere”, tanto per parafrasare il grande Erich
Fromm.
Ma stranamente, tra feste di laurea e pilei lanciati in aria, la nostra nazione, con il suo 30% di giovani disoccupati, se ne va intanto a rotoli. Ma chi se ne frega…
L’importante è incassare le tasse universitarie, indicibilmente alte confrontate con quelle austriache e sostenere l’idea pubblica che è importante accumulare il più titoli possibili (maturità, laurea, patentino, abilitazione…). Il risultato è che gran parte di chi si laurea passa ore e ore su concetti nozionistici per ritrovarsi davanti ad una realtà lavorativa all’insegna del precariato. Ma era logico, cos’altro vi aspettavate? Di studiare astronomia e diventare astronomi? Di studiare giornalismo e diventare giornalisti? L’università vi ha per caso insegnato a “fare”?
Ma stranamente, tra feste di laurea e pilei lanciati in aria, la nostra nazione, con il suo 30% di giovani disoccupati, se ne va intanto a rotoli. Ma chi se ne frega…
L’importante è incassare le tasse universitarie, indicibilmente alte confrontate con quelle austriache e sostenere l’idea pubblica che è importante accumulare il più titoli possibili (maturità, laurea, patentino, abilitazione…). Il risultato è che gran parte di chi si laurea passa ore e ore su concetti nozionistici per ritrovarsi davanti ad una realtà lavorativa all’insegna del precariato. Ma era logico, cos’altro vi aspettavate? Di studiare astronomia e diventare astronomi? Di studiare giornalismo e diventare giornalisti? L’università vi ha per caso insegnato a “fare”?
Forse quelle più moderne, estere, che hanno capito da tempo
di quanto la pratica sia esattamente così importante come la teoria. In Italia
ci fanno studiare i libroni a memoria. Ricordo quasi con nostalgia il manuale
di diritto privato Zatti-Colussi. 2 kg e di color marrone. Da lontano sembrava
un bel filetto al sangue. Il sangue lo sputano invece gli studenti, i quali si
ritrovano alla fine davanti ad un mondo lavorativo sempre più concentrato sulla
competizione e sul saper fare. Il mondo se ne fregherà del vostro 30 e lode in “Geografia
e progettazione strategica degli spazi turistici”, se non saprete come accogliere
un turista alla reception.
La teoria delle università italiane, asciutta come una cena a
base di crackers e nachos, ha bisogno di un rinascimento radicale, ma
soprattutto di una connessione diretta con il mondo del lavoro.
L’inflazione intellettuale è ancora più pericolosa di quella
economica, perché secondo la mia opinione deruba l’individuo del suo bene più
prezioso: il tempo.
Ivan Senoner
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