sabato 23 novembre 2013




E MENO MALE CHE CI AVEVANO DETTO DI LAUREARCI… 

(TIRATINA D’ORECCHIE AL SISTEMA UNIVERSITARIO ITALIANO)

Nella consapevolezza che ormai è sempre più difficile distinguere tra cosa sia vero o errato e che viviamo in un tempo dove tra spionaggio e controspionaggio ci sentiamo spesso marionette guidati da burattinai intrisi di potere, voglio dedicare qualche riflessione ad un’istituzione che da sempre rappresenta il punto nevralgico del sapere: le università.
Senza dissipare retorica voglio tornare indietro ai tempi in cui, io stesso ancora alunno, l’equazione del futuro era ancora di una semplicità disarmante. O andavi a lavorare o a studiare. A prescindere dal fatto che anche lo studio, se fatto bene è un lavoro arduo, ricordo che a quei tempi (e mi sento quasi vecchio a scriverlo) la visione sulle due categorie era abbastanza chiara. I lavoratori erano quelli che se lavoravano duro, a diciott’anni andavano già in vacanza su qualche isola dal nome che induceva a pensare a notti in bianco e che appena fatta la patente, giravano già con la propria autovettura. Gli studenti invece, ormai spogli dell’immagine che li identificava come privilegiati (anni ’50) o ribelli (anni ’70), erano visti generalmente come i presbiti, con il loro sguardo fermo rivolto ad un futuro sicuro. Anche o soprattutto in senso economico. 

Ricordo con piacere gli anni fruttuoso al liceo di Bolzano, ma mi viene in mente una confessione che mi fece un ingegnere tedesco prossimo alla pensione, prima che mi accingessi ad entrare nel confuso mondo dell’università. 
“Guarda ragazzo, sono uscito dall’università che conoscevo solo la teoria. Attraverso anni e anni di tirocinio sono arrivato a un punto che riesco a fare il mio lavoro come si deve e ora, che modestamente parlando, mi considero abbastanza esperto nel campo dell’ingegneria…mi «obbligano» ad andare in pensione. Giusto ieri ho introdotto nell’azienda un giovane neo laureato. Ottimi voti, ottima impressione, ma nella sua espressione disagiata mi sono rivisto”. Ricordo la mia conclusione e cioè che non a caso gli esperti sono quasi tutti sempre persone attempate. Sì, siamo la generazione alla quale hanno sempre sussurrato “Studia, studia, studia” e non si può confutare che si tratta di un inconfutabile imperativo. 

Eppure in questi anni in cui ho avuto l’occasione di osservare diverse università, sia da frequentatore che basandomi sulle testimonianze di amici, sono arrivato a pronunciare un j’accuse che dovrebbe far riflettere chi dall’alto, schiavo dei sistemi politici, dirige un sistema che era in fondo nato da un bellissimo istinto primordiale: la curiosità di sapere. Proprio quella curiosità che porta il bambino ad avvicinare il proprio dito verso la candelina sulla sua torta di compleanno per comprendere il significato pratico del concetto “fuoco”. Proprio quella curiosità che spingeva gli studenti greci ad incontrarsi nell’agorà o a conversare con “gentaccia” come Socrate. Le università sono nate per compensare la sete di sapere e trovo quasi ironico, che proprio in Italia, con Bologna (1033) culla europea del sistema universitario, abbiamo certe università totalmente alienate da ciò che dovrebbe essere il principio dell’istruzione. Le facoltà italiane sono diventate l’apoteosi della riproduzione, le tesi di laurea una variante sofisticata del copia-incolla, c’è spesso l’obbligo di frequenza e inoltre, per compensare il complesso della dispersione universitaria, sono spuntate tante micro-università che pur di avere studenti (e quindi finanziamenti) promettono lauree anche a encefali monocellulari. Ora esistono le università telematiche, wow

E’ molto triste pensare che da qualche parte, qualche furbo ha deciso d’instaurare un bel giorno le lauree triennali, purtroppo spesso inutili a livello pratico e pubblico come il ghiaccio al polo nord. Un biscottino, un assaggio per poter dire all’Europa: “Ehi, guardate quanti «laureati» abbiamo in Italia!” Poi, appena questi vogliono partecipare a qualche concorso pubblico, scoprono di aver acquistato un biglietto fasullo, un biglietto che permette di entrare allo zoo, senza poter vedere la sezione dei felini. Non a caso le facoltà pesanti (p.e. medicina) non le permettono. Chi di voi si farebbe operare da un medico, che ha fatto tre anni di teoria? Intanto riempiono i telegiornali di statistiche e osannano meriti e impegno degli studenti. Fanno le classifiche delle università, mandano gli studenti in giro per il mondo, organizzano master e usano parolone per illudere gli studenti con diplomi decisamente più impregnati di “avere” che di “essere”, tanto per parafrasare il grande Erich Fromm.
Ma stranamente, tra feste di laurea e pilei lanciati in aria,  la nostra nazione, con il suo 30% di giovani disoccupati, se ne va intanto a rotoli. Ma chi se ne frega…
L’importante è incassare le tasse universitarie, indicibilmente alte confrontate con quelle austriache e sostenere l’idea pubblica che è importante accumulare il più titoli possibili (maturità, laurea, patentino, abilitazione…). Il risultato è che gran parte di chi si laurea passa ore e ore su concetti nozionistici per ritrovarsi davanti ad una realtà lavorativa all’insegna del precariato. Ma era logico, cos’altro vi aspettavate? Di studiare astronomia e diventare astronomi? Di studiare giornalismo e diventare giornalisti? L’università vi ha per caso insegnato a “fare”?
Forse quelle più moderne, estere, che hanno capito da tempo di quanto la pratica sia esattamente così importante come la teoria. In Italia ci fanno studiare i libroni a memoria. Ricordo quasi con nostalgia il manuale di diritto privato Zatti-Colussi. 2 kg e di color marrone. Da lontano sembrava un bel filetto al sangue. Il sangue lo sputano invece gli studenti, i quali si ritrovano alla fine davanti ad un mondo lavorativo sempre più concentrato sulla competizione e sul saper fare. Il mondo se ne fregherà del vostro 30 e lode in “Geografia e progettazione strategica degli spazi turistici”, se non saprete come accogliere un turista alla reception.

La teoria delle università italiane, asciutta come una cena a base di crackers e nachos, ha bisogno di un rinascimento radicale, ma soprattutto di una connessione diretta con il mondo del lavoro.
L’inflazione intellettuale è ancora più pericolosa di quella economica, perché secondo la mia opinione deruba l’individuo del suo bene più prezioso: il tempo.

Ivan Senoner

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