domenica 25 gennaio 2015

GARDENA VALLEY HISTORY (1a parte)

GARDENA VALLEY HISTORY: La storia di tutti noi… o quasi

Chi siamo? Siamo quelli nati prima degli anni '80. Per otto interminabili anni (qualcuno 9 o addirittura 10) abbiamo frequentato la scuola dell’obbligo pensando che il preside fosse un certo Felix.
Obesità infantile? Nada. Indipendentemente dal fatto se abitavi uno o tre chilometri di distanza da scuola, lo scuolabus era meno reale di Babbo Natale. Perfino lo Yeti di Marëufer arrivava a scuola a piedi. Ci toccava macinare centinaia di metri e ciò faceva parte della nostra educazione. Sì, perché durante il tragitto non solo imparavi a scampare agli agguati e a digerire delusioni, ma facevi anche delle nuove amicizie. Inoltre in inverno, le palle di neve fucilate nella schiena facevano parte del nostro addestramento alla vita. Quelle rare volte che i genitori ci venivano a prendere in macchina, dicevamo loro di aspettarci a debita distanza. Questo per non farci prendere per il culo dai nostri amici e fare la figura dei fannulloni. Il pomeriggio vigeva una regola chiave.

THE WOOD

Fino a che c’era il sole, l’interno dell’appartamento era tabù. “Cosa fai in casa con questo tempo?” ringhiavano le nostre madri, se azzardavamo ad accendere il mostro sacro, ancora serenamente ignari dell’esistenza del telecomando.
Nel bosco di fine autunno eravamo dei veri carpentieri abusivi. Altro che condono edilizio! Le nostre capanne nel bosco venivano costruite, distrutte, conquistate, ricostruite, demolite. History Channel ci potrebbe girare un documentario storico. Eravamo i Robin Hood di Val d’Anna: coloro che rubavano i chiodi al ricco (di solito il nonno), per darli a noi stessi. Non storcete il naso. Voi avete per caso mai conosciuto qualcuno che abbia costruito una capanna, pagando per un asse di legno?




THE RELIGION

Noi degli anni ’80 ci hanno educato attraverso la religione visiva. Questo, nonostante non esistesse ancora il 3D. Il paradiso ce lo immaginavamo come una nuvola ovattata occupata dalla nonna e dal nonno (che intanto ci aveva perdonato per la storia dei chiodi fregati…). Quando anni dopo, abbiamo visto la pubblicità della Lavazza, ci siamo detti: “Cavolo, ci hanno copiato!” Per noi di “Su per Ch’l Piz”, confinanti con il cimitero, Ognisanti era la festa nazionale. Altro che Halloween. La zucca faceva parte dei frutti esotici (=inesistenti), come il mango, la papaya e la polvere di stelle. Il primo di novembre. Tutte quelle luci, che spettacolo… Andavamo a raccogliere le candele consumate per riciclarle (e pensare che non avevamo imparato il know-how attraverso un tutorial su Youtube). Eravamo autodidatti di “candelogia”. Laurea honoris causa. Tutto molto divertente, se non ci fosse stata quella maledetta vocina interiore a metterci in riga. Il cappellano ci ricordava che Dio vedeva tutto, ma noi sapevamo di avere un credito aperto con il Grande Capo. In fondo suoi dipendenti: eravamo i chierichetti ufficiali della parrocchia. Con tanto di divisa! Ci toccava servire messa per una settimana di fila. Non solo eravamo vittime del lavoro minorile, eravamo anche precari! La messa delle 7.10, con partenza in piena oscurità alle 7.00. Temperatura siberiana a -15, passando per un bosco popolato da gatti randagi… Forse Dante Alighieri aveva effettivamente radici gardenesi. Infatti all’inizio della Divina Commedia cita il nostro idillico paesino…?
Faceva così freddo che il vapore ci usciva dalla bocca e noi ci sentivamo grandi, mentre facevamo finta che stessimo fumando una sigaretta. Ad accoglierci in sacrestia c’era poi il sagrestano. All’epoca mi appariva simpatico come un Fernet bevuto a stomaco vuoto. Nonostante tutto, servire la messa di prima mattina non era male. Quelle mura, tra le quali echeggiavano i canti monocorde di una messa asciutta e meditativa, aveva qualcosa di surreale. Per non parlare del silenzio mistico, con le solite sette vecchiette, ogni mattina sedute ai medesimi posti, quasi avessero avuto l’abbonamento. Ma i ricordi abbracciano aspetti che a distanza di anni ci sembrano irrilevanti: il crepitio dell’ostia nel microfono, l’odore pungente del vino da messa, il marmo freddo. Ripensandoci, quei tenui rammenti rievocano quasi quasi una leggera voglia di ritornarci. Chissà se le vecchiette sono ancora lì, nella loro inconfondibile posa devota?



THE SKIPASS

E poi, a fine novembre, iniziava a scendeva la prima neve. Giusto in tempo per fare lo skipass formato gigante 10 cm X 10 cm. I risparmiatori più rigorosi riuscivano a coprire le spese, racimolando abbastanza soldi attraverso la “Tlecanocht”. Se avevi i polmoni per farti Arnaria – Costa Mula (andata e ritorno), magari te la cavavi con quattro giovedì d’avvento. Il mio amico, animato da un giovanile spirito capitalista, aveva tentato invano di convincermi che le settimane d’avvento fossero sei e non quattro! A Santo Stefano girava ancora per la via Lip stringendo calorosamente le mani e augurando Buon Natale.
Tornando allo skipass. Se i conti non tornavano, c’erano comunque sempre mamma, papà o la nonna a darti una mano. Infine entravi nel tempio della Banca Popolare per farti fare la tanto ambita tessera stagionale. Ah, la foto dello skipass! Altro che dodici tentativi digitali, altro che selfie! Non sapevi mai quando partiva la fotocamera e dato che i tizi ti mettevano pure fretta, eri teso come un lord inglese alla sua prima caccia alla volpe. Non avevi nemmeno il tempo di prepararti che partiva il flash! Le conseguenze? In foto apparivi con il tuo giubbotto imbottito, assomigliando tale e quale all’omino Michelin. Inoltre, essere raffigurato sulla foto dello skipass, dimenticandosi di togliere dalla testa il berretto era da sfigati. Così c’era chi ogni anno si ritrovava sullo skipass una foto simile ad una foto segnaletica del FBI, ovvero con lo sguardo esterrefatto da camaleonte sotto effetto di LSD.

SHOPPING

C’era un negozio, minuscolo come una stube tirolese. Dentro c’era un tizio che scolpiva e nell’aria aleggiava l’accogliente profumo della stufa a legno. Un gatto ronfava sul davanzale fregandosi di tutti. Era il paese dei balocchi del doposcuola. Se all’epoca fosse esistito il Lonely Planet, la rinomata guida turistica l’avrebbe sicuramente definito un “insider tip”. Era la piccola bottega del dopo scuola, famosa per gli Yo-Yo e le liquirizie a 100 lire. Ma ciò che oscurava quel negozio idillico era il fatto che fosse anche il regno di qualche cleptomane… Qualcuno si sentiva infatti molto figo a pensare che il canuto scultore non se ne accorgesse dei furtarelli, ma forse il vecchietto, da saggio qual era, aveva capito che qualche liquirizia in meno non gli avrebbe cambiato la vita.

HIGH TECNOLOGY

E mentre crescevamo e ci immaginavamo l’anno 2.000 disegnando nei nostri quaderni macchine volanti e aspettando qualche alieno affettuoso che sarebbe venuto a trovarci, per poi cascare nell’oblio della nostalgia, abbiamo sbirciato negli anni ’90 assaporando i Commodore ’64 e sacrificando ore delle nostre serate a programmare con Gw-Basic un cronometro. Ma il vero sbalordimento a destarci non fu un avvenimento tecnologico, bensì gastronomico: il canederlo gigante il giorno del 95esimo compleanno di Luis Trenker.
Capimmo che il mondo stava cambiando. No, non a causa del canederlo o del crollo del muro di Berlino, ma perché ora, rullo di tamburi, davanti alla porta di ogni bambino che aveva fatto la cresima, sostava una fiammante Mountain Bike a 18 marce Shimano. Naturalmente non incatenata.
E c’era dell’altro a tingere di modernità la nostra quotidianità. Ora in astuccio custodivamo un fulgente evidenziatore della Stabilo Boss.
Sì, era uscita la moda del fosforescente. La pista del Seceda sembrava la festa dei limoni a Mentone e per non venire accecato da quelle orrende tute gialle fosforescenti, dovevi metterti gli occhiali da sole.
Ma questa è un’altra storia…






(Continua…)

Ivan Senoner (Copyright 2014)

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